Il 5 Luglio 2023, il governo greco ha sgomberato il campo profughi curdo di Lavrio, in Grecia. Il campo esisteva da molti decenni ed era un importante centro di organizzazione nell’Europa sud-orientale. Le guerre della Turchia contro i curdi, del governo greco contro gli spazi autonomi e dell’Unione Europea contro i migranti si sono intersecate in questa operazione. Nell’analisi che segue, Beja Protner mostra le connessioni tra le varie forme di oppressioni sistemiche coinvolte. Per ulteriori informazioni su questi temi, è possibile consultare Rise Up 4 Rojava e Emergency Committee For Rojava.
Il 5 Luglio 2023, tra le 3 e le 6 del mattino, le forze dello Stato greco hanno fatto irruzione e sgomberato con violenza il campo profughi curdo auto-organizzato di Lavrio, in Grecia. Situato a circa 60 chilometri da Atene, il campo ospitava da decenni i rifugiati politici provenienti dalla Turchia e dal Kurdistan. Senza preavviso, più di 250 agenti di polizia, la polizia antisommossa (MAT) e le forze speciali di polizia pesantemente armate (EKAM) inviate dal Ministero dell’Asilo e della Migrazione, hanno sgomberato i residenti del campo – meno di 60 persone, un terzo delle quali erano bambini piccoli. I rifugiati sono stati trasferiti con la forza nel campo profughi di Oinofyta, situato all’interno di una fabbrica abbandonata – un’area deserta e lontana da qualsiasi tipo di insediamento urbano.
Lo sgombero è stato definito un “intervento umanitario” da parte dei funzionari greci; per i curdi e i rifugiati politici di sinistra provenienti dalla Turchia e dal Kurdistan, [invece, è sembrato] simile alle incursioni [turche] – e che li avevano costretti a fuggire dalle loro terre d’origine, cercando un rifugio in Grecia. Le forze greche hanno sfondato il cancello del campo, irrompendo nelle case dei rifugiati. [Immediatamente] hanno puntato i fucili [con mirini] laser contro le persone, comprese famiglie e bambini, e le hanno trascinate fuori [dalle case e, successivamente, dal campo].
“Nemmeno in Turchia [le forze statali] usavano così tanta tecnologia per le incursioni nelle case”, ha commentato Welat, un giovane rifugiato politico del Kurdistan settentrionale (Turchia) che, dopo essere fuggito dalle persecuzioni in Turchia, aveva vissuto nel campo di Lavrio per cinque anni. Come ha raccontato Leyla – abitante del campo insieme al marito e ai tre figli piccoli -, alle persone residenti è stata concessa solo mezz’ora per raccogliere i loro beni essenziali prima che le forze di polizia occupassero il campo e ne vietassero l’ingresso. Quelli che hanno opposto resistenza allo sgombero sono stati trattenuti violentemente – tramite l’ammanettamento delle mani dietro la schiena. Leyla ha cercato di calmare la figlia dicendole che quelle che venivano puntate contro di loro erano pistole giocattolo. “Ma la bambina sapeva cos’erano, fin dai tempi della Turchia”, ha detto Leyla. “I miei figli hanno visto così tante cose da non meritarsele.”
Tutti i 57 residenti, tra cui otto donne e diciannove bambini, sono stati arrestati e trasferiti nel campo profughi di Oinofyta, situato in una fabbrica abbandonata e lontana da qualsiasi tipo di insediamento urbano.
“Dove siamo? Cos’è questo posto?” ha chiesto Layla quando ci siamo incontrati attraverso la recinzione metallica di colore blu del cancello del campo e dopo che le guardie greche mi avevano negato l’accesso. Un anziano rifugiato curdo era appena tornato a mani vuote dopo un’ora di ricerca, sotto il sole cocente di mezzogiorno, di un negozio dove poter acquistare qualcosa da mangiare o da bere.
Erano le 14.00 e i rifugiati non avevano ancora ricevuto nulla da quando erano stati trasferiti con la forza alle 6.00 del mattino. “I bambini hanno fame!” ha detto in poche parole greche l’anziano rifugiato al personale di sicurezza – il quale stava seduto dentro una piccola cabina del cancello.
In netto contrasto con il campo di Lavrio, autonomo, autosufficiente e situato in posizione centrale, Oinofyta è una prigione sorvegliata dai funzionari di sicurezza (nominati dal governo) e che controllano le entrate e le uscite. Anche quando le persone hanno il permesso di uscire dal campo, l’area circostante è in gran parte deserta, isolata e, di conseguenza, [i residenti] dipendono dagli scarsi beni di prima necessità statali.
“Perché ci hanno fatto questo?” ha chiesto Diana, un’adolescente del nord-est della Siria (Rojava), mentre mi teneva per mano attraverso la recinzione blu.
La vita dei residenti del campo di Lavrio è stata stravolta in un solo giorno, privandoli della libertà e dell’autonomia. Il 4 Luglio vivevano in una comunità politica auto-organizzata, libera e sicura, che esisteva da oltre 40 anni. Il giorno dopo, erano rifugiati emarginati socialmente, imprigionati e dipendenti dallo Stato – mentre quest’ultimo distruggeva le case del più antico campo profughi d’Europa, chiudendo così un capitolo della storia del “Movimento per la Libertà del Kurdistan” in Grecia. La distruzione del campo di Lavrio è un momento storico in cui le politiche europee contro i rifugiati e il giro di vite della destra greca sugli spazi politici autonomi si intersecano con le relazioni internazionali greche e turche e con la guerra contro la popolazione curda, rivelando le loro interconnessioni.
Un attacco ai rifugiati e alla libera vita collettiva
Negli ultimi quattro anni, il governo di destra “Nuova Democrazia” (Νέα Δημοκρατία, ND) ha posto due priorità in cima alla sua agenda: la guerra contro i migranti e la distruzione degli spazi politici autonomi. Da quando Nuova Democrazia è salita al potere sotto il primo ministro Kyriakos Mitsotakis nel 2019, la polizia ha sgomberato e sigillato decine di squat nei centri urbani. Molti di questi ospitavano rifugiati e migranti che non avevano accesso ad un alloggio dignitoso in Grecia.
Dal 2015, la Grecia è servita all’Europa come “contenitore” per i migranti e i rifugiati indesiderati. Secondo il Regolamento di Dublino, i richiedenti asilo devono presentare una domanda di protezione nel primo Paese dell’Unione Europea in cui sono entrati. Ma la chiusura delle frontiere interne dell’UE nel 2016 ha intasato i sistemi di asilo nei Paesi ai margini dell’UE – come la Grecia. La lentezza, l’incomprensibilità e i continui cambiamenti del sistema di asilo greco ha reso questo processo un inferno per innumerevoli persone.
La maggior parte delle persone deve attendere diversi anni per il colloquio di asilo, durante il quale vi è un accesso limitato o nullo all’alloggio, all’assistenza finanziaria e sanitaria o all’istruzione. Durante questo periodo, i documenti temporanei dei migranti e dei rifugiati scadono continuamente e sono costretti a vivere come sans papiers [persone senza documenti] a causa dei ritardi del Servizio di asilo. Questa precarietà giuridica, indotta dall’amministrazione, rende queste persone vulnerabili alle operazioni di “pulizia” del centro di Atene. La polizia sequestra le persone prive di documenti di soggiorno validi e le conduce in campi e centri di detenzione simili a delle prigioni – dove le condizioni di vita sono abominevoli.
Le politiche migratorie e di asilo del governo di Nuova Democrazia costituiscono una guerra contro i migranti. Come “scudo d’Europa”, [l’attuale governo greco] fa il lavoro sporco dell’isteria razzista europea anti-migratoria. [In questo modo,] il confine terrestre e marittimo greco-turco è diventato un luogo di respingimenti illegali – una strategia di rimpatrio sistematica e non ufficiale dove le persone migranti vengono respinte verso la Turchia, senza che queste abbiano alcuna possibilità di richiedere asilo. Questo include coloro che fuggono dalle persecuzioni politiche dello Stato turco.
La polizia greca, Frontex, le guardie di frontiera, le guardie costiere, le bande che collaborano con questi e i vigilantes locali, effettuano ogni giorno questi respingimenti su vasta scala, violando una serie di leggi e convenzioni internazionali. Oltre a violare il diritto di richiedere asilo, [le forze repressive] infliggono [ai migranti] una violenza poliziesca brutale tra rapimenti forzati, torture, abusi sessuali e detenzioni non ufficiali in celle sovraffollate e senza accesso a cibo, acqua o servizi igienici. [Le forze repressive] della regione di Evros (nord-est della Grecia), effettuano respingimenti vicino al confine e rapiscono le persone dalle strade o dai campi dell’entroterra di Salonicco. Dopo essere state sottoposte a molteplici forme di maltrattamenti e umiliazioni da parte delle guardie di frontiera mascherate e bande collaboratrici, i migranti vengono portati sul fiume Evros e, successivamente, costretti a salire sui gommoni sotto la minaccia delle armi e trasferiti oltre il confine, verso la Turchia. In alcuni casi, i migranti vengono abbandonati sulle piccole isole fluviali senza cibo, acqua o medicine ed esposti alle intemperie.
Nel Mar Egeo e nel Mar Ionio, la Guardia Costiera ellenica e Frontex sono stati responsabili di innumerevoli respingimenti e morti. Le imbarcazioni in difficoltà vengono regolarmente rifiutate e lasciate affondare o rimorchiate verso la Turchia. In alcuni casi, la guardia costiera ha deliberatamente danneggiato i motori delle imbarcazioni prima di lasciarle alla deriva in mare aperto e vicino alle acque turche. In altri casi, le persone sono state abbandonate in mare su imbarcazioni di soccorso senza motori. Il governo greco cerca di legittimare queste azioni come forme di “sicurezza”, giocando sui sentimenti razzisti anti-migratorigreci e, più in generale, europei. Di conseguenza, il fiume Evros e il Mar Egeo sono diventati dei cimiteri per coloro che fuggono da guerre, persecuzioni, devastazioni economiche e catastrofi climatiche.
Nel contesto della criminalizzazione dei migranti e della migrazione in generale, i campi profughi greci sono diventati delle prigioni di massima sicurezza. Le condizioni di vita di questi luoghi sono notoriamente terribili, ma sono anche spazialmente e socialmente isolati, lontani da qualsiasi centro urbano. La maggior parte dei campi vicini ai centri urbani, che consentivano ai residenti di accedere ad un lavoro (anche se precario e sfruttato), alle strutture sanitarie e all’istruzione per i bambini, sono stati sgomberati con la forza. I campi isolati come Oinofyta, dove i rifugiati vengono trasferiti con la forza, dipendono dall’inadeguata fornitura statale dei beni di prima necessità.
Le politiche dei lager e dei confini dello Stato greco seguono una logica genocida di “pulizia” che, per molti aspetti, assomiglia a fenomeni quali l’Olocausto, il genocidio armeno e altri eventi similari: l’idea di sbarazzarsi di una popolazione indesiderata con ogni mezzo a disposizione; un’escalation graduale di discorsi e pratiche di disumanizzazione che diventano normalizzati; la palese “banalità del male”1 negli atteggiamenti degli agenti di polizia e di frontiera, dei burocrati e dei dipendenti dei lager; e infine, la scelta della stragrande maggioranza dei cittadini nell’accettare queste pratiche così da non vedere i migranti intorno a loro o nel loro Paese.
In effetti, molti cittadini della Grecia e di altri Paesi dell’Unione Europea hanno adottato l’idea sostanzialmente genocida che queste persone “non dovrebbero essere qui”, “bisogna impedirgli di stare in questi luoghi” o “farle sparire con qualsiasi mezzo.” Allo stesso tempo, questi cittadini rifiutano di riconoscere il regime di annientamento a cui sono sottoposti i migranti.
Portando avanti i valori e le pratiche della “vita libera insieme” (hevjiyana azad/özgür eş yaşam) – nate dal Movimento per la Libertà del Kurdistan -, il campo profughi curdo di Lavrio è stato uno degli ultimi posti a resistere contro questo sistema di incarcerazione e annientamento. A Lavrio, i rifugiati rivoluzionari provenienti dal Kurdistan e dalla Turchia hanno vissuto per decenni nel centro della città costiera insieme agli abitanti e ai turisti. A differenza dei campi di prigionia gestiti dallo Stato, il campo di Lavrio è stato interamente autogestito dopo che lo Stato si ritirò sette anni fa ed è sopravvissuto grazie al sostegno e alle donazioni degli enti di beneficenza, ONG, gruppi di solidarietà e filantropi locali e stranieri. Gli attivisti internazionali e locali, ricercatori, giornalisti e fotografi hanno visitato spesso il campo e sono stati accolti calorosamente come ospiti.
Il campo di Lavrio era un’utopia vissuta, un mondo da mettere in pratica. La vita nel campo era organizzata secondo i principi del Confederalismo Democratico, un sistema di auto-organizzazione basato nelle comuni, comitati e assemblee, descritto dal leader del Movimento per la Libertà del Kurdistan, Abdullah Öcalan, come un modo per creare collettivamente una coesistenza comunitaria pacifica, sicura e armoniosa tra gli esseri umani e l’ambiente – un’alternativa alla logica dello Stato-nazione.2
Le relazioni di uguaglianza di genere, il cameratismo, l’aiuto reciproco, il rispetto e la cura per le altre persone, gli animali e l’ambiente, caratterizzavano la vita quotidiana nel campo di Lavrio. Era un luogo in cui gli individui, giovani, famiglie e bambini provenienti dalla Turchia e dalle quattro parti del Kurdistan (occupato da Turchia, Iran, Iraq e Siria) trovavano un rifugio sicuro e una casa dopo essere fuggiti dalla guerra, dalla persecuzione politica, dalla tortura, dalla prigionia e dalla minaccia di morte. Come molti residenti hanno notato, [il campo] era “come il Kurdistan”, un pezzo di patria all’estero; un Kurdistan libero dalla violenza e dal patriarcato, dove i curdi e i rifugiati politici di sinistra potevano riprendersi da esperienze traumatiche di violenza ed esprimere liberamente la loro cultura politica, ricostruendo così la propria comunità. Molti residenti, dopo che avevano ottenuto asilo in Grecia, avevano scelto di continuare a vivere nel campo di Lavrio – continuando così a partecipare a questo progetto di “vita libera insieme” e, soprattutto, sentirsi al sicuro nel campo e nella città di Lavrio.
Cancellare una storia di lotta e solidarietà
Il campo di Lavrio era uno dei più antichi campi profughi d’Europa. Fu istituito nel 1947 con il nome ufficiale di “Centro di permanenza temporanea per stranieri richiedenti asilo” e serviva per ospitare i rifugiati di origine greca (“espatriati”) in fuga dall’Unione Sovietica.3
Secondo un rapporto di ricerca del 1950, il campo ospitò circa 300 persone, tra cui famiglie e individui di diverse nazionalità provenienti da Unione Sovietica, Bulgaria, Albania e Romania – le quali fuggivano dalle persecuzioni dei loro Paesi di origine. Le necessità dei rifugiati vennero gestiti dall’ “Organizzazione Internazionale per i Rifugiati” (IRO), una missione delle Nazioni Unite in Grecia, in collaborazione con le autorità greche. Negli anni successivi [il campo] era stato abitato da richiedenti asilo provenienti da vari Paesi – soprattutto dai Balcani e dal Medio Oriente.4
I rifugiati politici provenienti dalla Turchia divennero i residenti più numerosi del campo negli anni ’80, precisamente dopo il colpo di Stato militare del 12 Settembre 1980, quando la Turchia passò sotto il governo di una giunta militare nazionalista sunnita – che torturò, imprigionò, uccise e costrinse all’esilio decine di migliaia di curdi e politici di sinistra.
Mentre lo Stato greco era, tecnicamente, responsabile del campo – gestendo le procedure di asilo e fornendo cibo, cure mediche e beni di prima necessità -, i rifugiati rivoluzionari si organizzavano attraverso comuni e assemblee. Era stata costruita una comunità politica di esuli auto-organizzati – la cui esperienza si basava su quello che essi avevano vissuto all’interno delle carceri politiche turche. Il campo di Lavrio non fu solo uno spazio di rifugio ma anche uno dei più importanti luoghi di organizzazione politica esule in Europa.
Era stato anche un ambiente di solidarietà internazionale e di cameratismo. Dagli anni Ottanta, diverse organizzazioni della sinistra greca, sindacati e gruppi di solidarietà avevano visitato il campo, rivendicando pubblicamente il diritto all’asilo, al lavoro politico, all’occupazione, all’assistenza sanitaria e a migliori condizioni di vita per i rifugiati rivoluzionari. I residenti avevano creato anche dei legami con i partiti e le organizzazioni di sinistra greche e si erano impegnati con la popolazione in generale, producendo e distribuendo volantini e riviste in greco dove spiegavano la situazione di oppressione politica in Turchia e chiedevano un’ampia solidarietà turco-greca.
Negli anni ’90, un gran numero di rifugiati curdi, in particolare le famiglie, erano arrivati nel campo di Lavrio a causa della violenza politica nel Kurdistan settentrionale (in Turchia). Negli anni ‘90 lo Stato turco, vista la crescente popolarità e mobilitazione del “Partito dei Lavoratori del Kurdistan” (PKK) in Kurdistan, prese di mira i civili che abitavano quel territorio: ciò si tradusse in campagne repressive dove l’esercito anatolico e le organizzazioni paramilitari perpetravano omicidi di massa, sparizioni forzate, torture e incarcerazioni. Fu in questo periodo che il campo ebbe una maggioranza curda e incentrò [la sua politica] sul “Movimento per la Libertà del Kurdistan”, guidato dal PKK. Grazie alla solidarietà tra i rifugiati curdi e turchi e i gruppi di sinistra greci, gli esuli organizzarono regolarmente degli eventi culturali in tutta la Grecia – ampiamente frequentati dalla popolazione locale. Parteciparono anche a festival locali, condividendo musica, cibo e materiale informativo.
Un gran numero di famiglie curde sfollate dalla Siria aveva trovato rifugio nel campo di Lavrio, in particolare dopo la guerra civile siriana (2011), l’attacco dello Stato Islamico alle regioni curde in Siria (2014) e il genocidio contro i curdi yazidi a Sinjar, in Iraq (2014), e l’invasione turca del nord della Siria (a partire dal 2018). Nel 2016, a causa delle pressioni politiche della Turchia, il governo greco voleva chiudere il campo, ma centinaia di residenti avevano opposto resistenza. In seguito, lo Stato greco aveva ritirato tutti i servizi, abbandonando il campo a se stesso. Da quel momento in poi, il campo era stato completamente autonomo. I residenti si erano organizzati collettivamente e condividevano le responsabilità per la pulizia, la cucina, l’assistenza medica di base, le riparazioni e la distribuzione delle donazioni – come cibo, prodotti per la pulizia e l’igiene e vestiti -, fornite da vari enti di beneficenza, ONG, filantropi e gruppi di solidarietà che visitavano spesso il campo.
Negli ultimi anni, soprattutto in seguito alla rivoluzione del Rojava nel nord e nell’est della Siria dopo il 2012, il movimento curdo ha goduto di un’attenzione e di un sostegno crescente da parte della comunità internazionale – specie in Grecia. Come il campo profughi di Maxmûr in Iraq, in Medio Oriente,5 il campo di Lavrio era diventato un centro del confederalismo democratico in Europa: in esso veniva attuato il modello dell’auto-organizzazione basato sull’auto-liberazione delle donne, la democrazia di base e l’ecologia praticata nell’Amministrazione autonoma della Siria settentrionale e orientale (Rojava). Talvolta il campo di Lavrio era stato visto come una miniatura del Rojava; aveva acquisito un’importanza internazionale come centro di nuove connessioni transnazionali e come luogo di formazione e pratica politica – il tutto costruito da una lotta rivoluzionaria ultra-quarantennale in Kurdistan e dall’organizzazione politica esule [in Grecia].
Per quattro decenni, il campo di Lavrio non è stato solo uno spazio di rifugio ma anche un centro di organizzazione politica curda e di sinistra, di collegamenti internazionali, cameratismo e incontri interculturali. Ogni anno, il campo di Lavrio ospitava le celebrazioni del Newroz (21 Marzo), il capodanno di diversi popoli dell’Asia occidentale [; per i curdi] è una festa [che celebra] la resistenza e il rinnovamento. All’evento in questione venivano i rifugiati, i greci e la gioventù internazionale che si univano – letteralmente e attraverso i govend, le tradizionali danze circolari curde -, in un cerchio di riconoscimento e solidarietà reciproca.
Come lo sgombero di decine di squat auto-organizzati in tutta la Grecia, la decisione del governo di Nuova Democrazia di distruggere il campo di Lavrio costituisce un tentativo di eliminazione della solidarietà transnazionale – che il luogo rappresentava e ospitava. Allo stesso tempo, è stato un attacco alla storia rivoluzionaria del campo stesso. Gli edifici del campo avevano quasi un secolo di vita; ogni centimetro portava le tracce della determinazione rivoluzionaria, del lavoro comunitario e del cameratismo tra le decine di migliaia di persone che erano passate e cresciute in questo luogo e che avevano partecipato alla sua riparazione – trasformandolo in una casa per sé e per i loro successori. Con la distruzione del campo di Lavrio, una parte di questa storia collettiva viene deliberatamente cancellata.
Un altro regalo della NATO a Erdoğan
Il giornalista curdo rifugiato Vedat Yeler ha definito lo sgombero e la distruzione del campo di Lavrio un “regalo della NATO a [Recep Tayyip] Erdoğan.” Lo sgombero è avvenuto pochi giorni prima (11 Luglio) del vertice NATO a Vilnius, in Lituania – dove avrebbero dovuto partecipare sia la Grecia che la Turchia. I due membri della NATO si sono scontrati per decenni sul conflitto di Cipro e sulle dispute territoriali nel Mar Egeo. In reciproche calunnie populiste, i politici turchi hanno accusato la Grecia di ospitare dei “terroristi” nel campo di Lavrio e, per anni, hanno pressato lo Stato greco affinché chiudesse lo spazio. Tuttavia, dopo la rielezione del regime sunnita-nazionalista di Erdoğan in Turchia e del governo di Nuova Democrazia di Mitsotakis in Grecia, rispettivamente nel Maggio e nel Giugno del 2023, si è assistito ad un cambiamento nelle relazioni bilaterali tra i due Paesi. Durante una visita a Cipro, pochi giorni prima dello sgombero, il ministro degli Esteri greco ha dichiarato di voler migliorare le relazioni con la Turchia. L’attacco ai rifugiati politici curdi in Grecia può essere inteso come un tentativo di dimostrare questi sforzi prima del vertice NATO.
Non è la prima volta che i curdi vengono utilizzati come strumento nella geopolitica regionale e nella gestione delle relazioni interne della NATO. Una precedente occasione, in cui lo Stato greco ha giocato un ruolo cruciale, è stata la cospirazione internazionale del 15 Febbraio 1999 – che ha portato alla cattura del leader del PKK, Abdullah Öcalan. Per tutti gli anni Ottanta e Novanta, il movimento curdo aveva goduto del sostegno pubblico dei politici e dell’opinione pubblica greca di sinistra. Quando Öcalan fu esiliato dalla Siria, cercò rifugio in Europa e fu ospitato dai servizi segreti greci. Tuttavia, sotto le pressioni dell’UE e della NATO, gli venne rifiutato il rifugio in Grecia e fu trasferito all’ambasciata greca in Kenya, dove venne consegnato in seguito ai servizi segreti turchi.6 Di conseguenza, con la diretta complicità della Grecia, Öcalan fu imprigionato a vita e in completo isolamento sull’isola turca di İmralı.
Nel 1999, i rifugiati curdi e altri rifugiati rivoluzionari in Grecia si sono uniti alle migliaia di sostenitori locali per protestare contro quella che molti anziani greci ricordano come una delle azioni più vergognose dello Stato greco. Oggi, con lo sgombero del campo di Lavrio, il movimento curdo ha visto ancora una volta che non può fidarsi di nessuno Stato ma deve fare affidamento sulla solidarietà delle persone.
Per molti anni, la NATO ha sostenuto la violenza politica e i crimini di guerra della Turchia in Medio Oriente. Con il secondo esercito più grande della NATO, lo Stato turco ha condotto una guerra impari contro i guerriglieri del PKK in Kurdistan, commettendo atti di violenza politica e crimini di guerra contro i guerriglieri, la popolazione locale e l’ambiente, compresi incendi ecologicamente devastanti e attacchi con armi chimiche. La Turchia ha sostenuto materialmente e logisticamente l’ISIS e altre bande jihadiste in Siria e Iraq nella loro lotta contro i curdi. Inoltre, la Turchia ha bombardato, invaso e occupato diverse aree a maggioranza curda nel nord e nell’est della Siria, dove ha impiegato mercenari jihadisti per terrorizzare e abusare delle popolazioni locali, provocando la fuga di migliaia di persone. Allo stato attuale delle cose, dal punto di vista geopolitico, un membro della NATO può fare tutto questo senza alcuna reazione significativa delle istituzioni internazionali.
Recentemente, le relazioni tra la Turchia e altri membri della NATO sono sfociate ancora una volta nella violenza contro i rifugiati curdi e politici turchi esuli. Nel 2022, quando Finlandia e Svezia hanno deciso di aderire alla NATO – nel contesto dell’invasione russa dell’Ucraina -, la Turchia ha preso di mira i rifugiati curdi, [trattandoli] come merce di scambio nei negoziati. La Turchia ha posto il veto sull’adesione della Finlandia e della Svezia alla NATO: avrebbe accettato [i due paesi nell’Alleanza Atlantica] solo se questi consegnavano i rifugiati politici residenti nei loro Paesi – affinché fossero imprigionati (o peggio) in Turchia. Questo traffico di esseri umani è avvenuto con la Svezia, la quale ha estradato un certo numero di esuli politici in Turchia.
I rifugiati politici del Kurdistan e della Turchia organizzano regolarmente manifestazioni nel centro di Atene per protestare contro l’oppressione politica in Turchia, l’incarcerazione di Abdullah Öcalan, le invasioni militari, gli assassinii degli attivisti in Rojava (Siria) e Başûr (Iraq), l’uso di armi chimiche contro i guerriglieri del PKK nelle montagne del Kurdistan e, soprattutto, per condannare il silenzio delle istituzioni europee ed internazionali sui crimini della Turchia. Fonte foto, 20 Novembre 2022.
L’Unione Europea e la NATO hanno continuamente collaborato alla criminalizzazione del PKK e degli attivisti (pro-)curdi, adottando il discorso del “terrorismo” che la Turchia utilizza per legittimare i massacri, l’uso di armi chimiche, la persecuzione di massa di dissidenti politici, giornalisti e avvocati e le invasioni militari che hanno costretto all’esilio milioni di persone. Le discussioni al vertice NATO dell’11 Luglio hanno sviluppato ulteriori minacce contro la comunità politica curda in patria e in esilio. Ad esempio: nell’ambito di un nuovo patto di sicurezza bilaterale, Erdoğan ha incontrato il primo ministro svedese Ulf Kristersson e ha accettato di trasmettere il protocollo di adesione della Svezia alla Grande Assemblea Nazionale Turca per la ratifica; questo a condizione che la NATO si impegni a nominare un “coordinatore speciale per l’antiterrorismo” e che la Svezia collabori nell’affrontare le “preoccupazioni securitarie” della Turchia (in altre parole, l’esistenza di curdi organizzati politicamente). Questo significa che vi saranno maggiori persecuzioni ed estradizioni ai danni dei curdi in esilio e rifugiati politici che cercano di trovare sicurezza in Europa.
Non è chiaro se Erdoğan e Mitsotakis abbiano discusso della comunità politica curda e turca in Grecia durante il loro incontro al vertice NATO del 12 Luglio. Tuttavia, lo sgombero e la distruzione del campo di Lavrio [mostra come] lo Stato greco stia al fianco del governo turco nel suo progetto secolare di annientamento dei curdi in Turchia e altrove.
La questione dei rifugiati e i curdi
Se consideriamo sia la posizione dei curdi nella geopolitica della NATO che la guerra razzista dell’Unione Europea contro i migranti (dove lo Stato greco si schiera con l’oppressore), possiamo vedere come i sistemi integrati – che Öcalan e il movimento curdo chiamano le “forze della modernità capitalista”2 -, conducano una guerra contro la vita libera.
Mentre il governo turco continua a sfollare milioni di persone dalla Turchia e dal Kurdistan – molte delle quali cercano asilo in Europa -, l’UE protegge i suoi confini con metodi e discorsi genocidi, versando miliardi di euro alla Turchia – in modo che questa blocchi le migrazioni dal Sud globale. Secondo il cosiddetto accordo UE-Turchia del 2016, l’UE ha versato allo Stato turco 3 miliardi di euro per accogliere e contenere i migranti e i rifugiati del Sud globale – i quali cercano di raggiungere la sicurezza attraversando la Turchia.
In seguito a questo accordo, nel 2021 la Grecia ha dichiarato la Turchia “Paese sicuro” per i rifugiati provenienti da Siria, Afghanistan, Somalia, Pakistan e Bangladesh. Tuttavia, le persone provenienti da questi Paesi non hanno la possibilità di ottenere asilo in Turchia a causa della sua legislazione obsoleta in materia di rifugiati. Hanno un accesso limitato ai diritti di residenza, all’alloggio e al lavoro legale e sono sempre più esposti a deportazioni e respingimenti [il ritorno forzato dei rifugiati in un Paese in cui rischiano di essere sottoposti a persecuzioni], sfruttamento economico e sessuale, attacchi razzisti e omicidi, legittimati e incoraggiati da un discorso razzista anti-rifugiati. I curdi della Turchia conoscono bene queste forme di violenza sistematica, normalizzate da decenni di discriminazione nei confronti delle minoranze non turche.
Data la non trasparenza del corrotto Stato turco, è difficile dire quanto denaro dell’UE sia stato utilizzato per accogliere i 10 milioni di rifugiati – la maggior parte dei quali vive in condizioni di vita deplorevoli. Allo stesso tempo, la Turchia ha aumentato in modo esponenziale le sue scorte di armi e tecnologie militari e misure repressive e di sorveglianza. Sicuramente, i “fondi per i rifugiati” dell’UE sono stati utilizzati per intensificare la guerra contro i curdi – sia in patria che all’estero -, spingendo altri milioni di persone a cercare rifugio in Europa e nel resto del Nord globale.
Oltre al denaro, l’UE, tramite il suo silenzio, ha sostenuto la Turchia nei maltrattamenti sistematici contro i rifugiati e i dissidenti politici presenti nella penisola anatolica, oltre alla violenza politica, alla sponsorizzazione dei jihadisti, agli interventi militari e ai crimini di guerra del governo turco. Di fronte a tutti i tentativi di critica dei funzionari dell’UE, Erdoğan ha minacciato di “liberare” i rifugiati in Europa. L’UE, spinta da una xenofobia sistemica, rimane complice delle violenze della Turchia contro i curdi, i rivoluzionari di sinistra, i dissidenti politici, le donne, le minoranze sessuali e le popolazioni di migranti e rifugiati indesiderati – nonostante la Turchia stessa produca milioni di rifugiati.
In breve: ovunque si incroci il “problema” europeo con i migranti e il “problema” della Turchia con i curdi, le persone vengono uccise, sfollate, dissuase violentemente, incarcerate, private di diritti e, come atto finale di disumanizzazione, usate come oggetti di ricatto, contrattazione e commercio umano tra Stati.
Ho scritto questo saggio per cercare di rispondere alla domanda di Diana, “Perché ci hanno fatto questo?”, dopo che era stata sfrattata dalla sua casa insieme alla sua famiglia e al resto dei residenti del campo di Lavrio. Ho cercato di mostrare come l’imperialismo della NATO, la guerra europea ai migranti (compresi quelli che fuggono dalla Turchia e dal Kurdistan) e la guerra della Turchia contro i curdi e i dissidenti politici si siano intrecciati nelle relazioni dei poteri regionali e globali. Coloro che subiscono l’oppressione, la violenza politica e lo sfruttamento economico – e che resistono cercando una vita più libera attraverso la migrazione, l’autorganizzazione autonoma e l’autodifesa – sono sotto attacco ad ogni passo.
Oggi, le rovine del campo profughi rivoluzionario di Lavrio – che per decenni è stato un rifugio sicuro per i rifugiati politici e una culla per la solidarietà internazionalista -, testimoniano la violenza di ciò che il Movimento curdo chiama “Modernità capitalista”, un sistema integrato in cui la vita viene svalutata, sfruttata e spenta. Di fronte ad una forza così imponente, che ha colpito direttamente i residenti del campo di Lavrio ma che minaccia tutti noi, l’unico modo per resistere è stabilire una solidarietà internazionale e una lotta comune contro tutte le frontiere e le ingiustizie del mondo odierno.
Quelli di noi che sperano di agire in solidarietà con Diana e con tutti coloro che sono oppressi e lottano, dobbiamo chiederci [collettivamente] che cosa faremo per difendere la “vita libera insieme” – conosciuta e imparata a Lavrio. Senza i suoi abitanti e la loro politica, [il campo] è solo un insieme di vecchi edifici distrutti. Non dobbiamo permettere che le sue rovine diventino un’immagine del futuro.
Possiamo parlare e agire in risposta alla violenza sistematica dello Stato, organizzandoci contro la criminalizzazione e [supportando] le popolazioni oppresse e le persone che cercano la libertà e una vita migliore, sia in patria che in esilio. Onoriamo la storia del campo di Lavrio costruendo spazi alternativi di “vita libera insieme” e che connettano rivoluzionari, migranti e rifugiati, gente del posto e tutti gli oppressi. Facciamo in modo che l’eredità del campo di Lavrio viva in molti nuovi spazi auto-organizzati di cameratismo, solidarietà internazionalista e lotta.
Translation courtesy of Gruppo Anarchico Galatea. The header image shows the self-organized camp for political refugees from Kurdistan and Turkey in Lavrio, Greece. Photo: Beja Protner, March 2023.
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In “Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil “(1963), Hanna Arendt ha discusso della “banalità del male” nell’Olocausto, partendo dal caso dell’ufficiale nazista Adolph Eichmann, responsabile del trasferimento delle persone nei campi di concentramento. Con il concetto di “banalità del male”, Arendt ha sostenuto che i burocrati partecipanti alle atrocità sono “persone normali” e lavorano all’interno di un sistema ordinato, svincolati dalle conseguenze delle loro azioni e, quindi, non intrinsecamente malvagi e/o sadici. ↩
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Öcalan, Abdullah (2020). The Sociology of Freedom: Manifesto of the Democratic Civilization, Volume III. Oakland, CA: PM Press. ↩ ↩2
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Dirakis, Yannis (2019). “Claiming the right to the camp – An ethnography of the squatted Lavrio Center of Temporary Stay for Foreign Asylum Seekers” Unpublished master’s thesis. Maastricht: Maastricht University. ↩
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Ibidem ↩
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Vedere Dirik, Dilar (2022). “Mexmûr: From displacement to self- determination (Ch. 23).” In The Kurdish Women’s Movement: History, Theory, Practice. London: Pluto Press ↩
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Nota del Gruppo Anarchico Galatea: nella cattura di Öcalan giocò un ruolo decisivo il governo italiano di centro-sinistra, guidato all’epoca da Massimo D’Alema. Ocalan, quando arrivò in Italia dalla Russia il 12 Novembre 1998, venne arrestato dalla polizia italiana a causa di un mandato di cattura internazionale emesso sia dalla Germania che dalla Turchia. A differenza dello Stato tedesco, il governo turco pressò il suo omologo italiano affinché estradasse Ocalan. Il governo di D’Alema, però, non poteva concedere l’estradizione in quanto 1) l’imputato avrebbe rischiato la pena di morte in Turchia e 2) si palesava una violazione di due articoli (10 e 26) della Costituzione Italiana. Nell’articolo “Caso Ocalan e questione kurda. L’ipocrisia della diplomazia internazionale gioca sulla pelle di trenta milioni di kurdi”, Umanità Nova, n. 37, 29 Novembre 1998, veniva scritto: “[…] La Turchia nonostante ciò è un partner fondamentale sia dell’Alleanza Atlantica sia dell’Europa. L’Italia è legata alla Turchia da trattati commerciali e politici importanti che datano da molti anni. I soldati turchi che operano nei territori kurdi sono equipaggiati con armi italiane, come italiani sono gli elicotteri da combattimento e i blindati. Recentemente, il 22 settembre di quest’anno, il ministro degli Interni Napolitano ha firmato un accordo con la Turchia proprio sulla questione della collaborazione alla lotta contro il terrorismo. E per la Turchia terrorismo significa PKK. La questione di Ocalan, dunque, ha solamente scoperchiato l’ipocrisia di un Europa sorniona che fa orecchie da mercanti sul caso dei diritti umani e civili del popolo kurdo. […] la diplomazia italiana, come ha recentemente confermato Pietro Fassino, ha già delineato i suoi compiti. In sintesi la posizione è questa: “Ocalan è un capo di un’organizzazione illegale che è stato fermato in Italia e il nostro paese non intende con questo dare ospitalità a individui che combattono il governo turco con azioni terroristiche. L’Italia non entra nel merito della questione kurda perché essa è un problema interno della Turchia e non è un problema internazionale. L’Italia, nel pieno rispetto degli accordi internazionali, provvederà ad accettare l’estradizione del leader kurdo per quei paesi che lo richiederanno e dove, come in Germania, non vige la pena di morte. L’Italia denuncia l’aggressione della campagna turca contro le aziende italiane e ne chiede l’immediata sospensione”. Come si vede la diplomazia non solo italiana ma di tutti i paesi è come un elefante che balla in una pista di circo ricoperta da migliaia di bicchieri di vetro dove quest’ultimi rappresentano i trenta milioni di kurdi che vivono nell’area medio orientale. Nessuno si preoccupa di loro, sono solamente un problema di ordine pubblico interno ai singoli paese che li ospitano, l’importante è salvare i buoni affari! […].” Dopo quasi tre mesi di permanenza in Italia e una richiesta di asilo politico pendente, Öcalan partì dall’Italia il 16 Gennaio 1999 e arrivò a Nairobi, in Kenya. Un mese dopo, il 15 Febbraio, verrà catturato dai servizi segreti turchi. L’ipocrisia del governo italiano e dei mass media verrà descritta nell’articolo “Caso Ocalan e questione curda. L’Europa della vergogna”, Umanità Nova, n. 7, 28 Febbraio 1999: “[…] L’atteggiamento pavido dei governi europei che ha obbligato Ocalan ad una fuga sempre più disperata che alfine lo ha reso facile preda del governo turco non è che l’ennesimo atto, più eclatante solo perché maggiormente sotto l’occhio di vetro delle telecamere, della consapevole scelta di rimozione operata nei confronti della questione curda. […] Certo Ocalan per molti aspetti non è esattamente un personaggio dalla limpida biografia del rivoluzionario libertador che tanta sinistra buonista indulge a descrivere […] tuttavia la vicenda che lo vede coinvolto, la ribellione dei curdi in molti paesi, il crescere della repressione in Turchia non possono che suscitare indignazione. In quest’Europa degli steccati e dei capitali, gli appelli alla D’Alema per un processo equo mostrano il volto di un’Italia e di un’Europa ben più attente alle commesse militari con la Turchia ed a buoni rapporti con gli Stati uniti, gli alleati di sempre, che non al rispetto dei diritti umani.” ↩